Il sogno del Festival (contro le fake news)

di Irene Roberti Vittory

Dieci aprile duemiladiciassette. La sveglia suona alle 8.25. Guardo e riguardo lo schermo del telefono e mi sento un po’ come la tipa della pubblicità della Costa Crociere che girava qualche tempo fa. Malinconica. Mi alzo. Sulla sedia, accatastate una sull’altra, le giacche da portare in tintoria. Sono cinque, e tutte mi hanno accompagnato nell’ultima settimana. La settimana del Festival del Giornalismo.
Tornare a scuola dopo cinque giorni di lavoro ininterrotto fra teatri, hotel e strade perugine è come svegliarsi all’improvviso da un lunghissimo sogno. Uno di quelli in cui accade di tutto: corri, cadi in un dirupo – e in realtà è colpa dei muscoli che si rilassano, o alla peggio stai cadendo dal letto – incontri chi non ti saresti mai aspettato, aspetti chi non riuscirai mai a incontrare. C’è qualcosa che ti spaventa e qualcosa di meraviglioso, e quando arriva il suono della sveglia riesci solo a biascicare “no dai, altri cinque minutini”. Perché vuoi vedere come va a finire. O vuoi che non finisca.

Dante disse che al mattino “del ver si sogna”. E noi della Scuola perugina di giornalismo – tutti e ventiquattro – abbiamo vissuto un sogno a occhi aperti. Per (mediamente) dieci ore al giorno, non solo al mattino. I tanti convegni, incontri, presentazioni del festival ce li siamo visti anche e soprattutto da dietro le quinte. Mentre nella nostra redazione, trasferita in una sala grande e umida al pian terreno di Palazzo dei Priori, ci alternavamo al desk e ai computer per montare video e radiocronache, caricare gallery fotografiche, scrivere articoli e seguire il flusso infinito dei social, al “piano di sopra”, nella Sala dei Notari, parlavano Floris, Formigli, Ilaria Cucchi, Lirio Abbate, Cameron Barr, i genitori di Giulio Regeni, Mentana, Zerocalcare. Giusto per citarne qualcuno.

Ma festival del giornalismo non vuol dire solo Sala dei Notari. Per beccare gli ospiti, fare interviste, dirette Facebook e qualche selfie, bisogna fare su e giù per corso Vannucci. Andare al Brufani, lo storico hotel perugino che in quei giorni perde la sua maestosa compostezza, invaso com’è da telecamere, gente in fila ai vari panel e giornalisti in cerca di wifi e Baci Perugina omaggio. Schizzare rapidamente al teatro della Sapienza all’ora di pranzo col cappotto addosso, intercettando di sfuggita le parole di una signora che dice che per il meteo “oggi Perugia è la città più calda d’Italia”. Rifugiarsi nel chiostro della Sala del Dottorato e accucciarsi in un angolo con il flash-mic per registrare una diretta.

Me la sono goduta – anzi – ce la siamo goduta? Beh, per godersela nel senso tradizionale del termine, scegliendo con calma cosa andare a vedere e cosa no, si devono indossare i panni del turista. Noi invece abbiamo indossato quelli del giornalista. Li indossiamo tutti i giorni: sono quelli che accatastiamo su sedie e dentro cassetti, insieme ai sogni, più veri del vero. Altro che fake news.

In nome di Andrea Rocchelli

di Nicola Campagnani

Quello di Andrea Rocchelli è un nome. Come è un nome quello di Giulio Regeni. Tutto ciò che resta in vita di chi è morto in nome della verità e della storia. Tutto ciò che resta da cancellare sono i loro nomi. Andrea Rocchelli è stato ucciso il 24 maggio 2014, perché era un fotoreporter. Era in Ucraina per raccontare la guerra del Donbass.

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Che giornalismo è

Di Camilla Orsini

Siamo nel meraviglioso universo Marvel: tra supereroi e cattivi da sconfiggere, Ben Urich (reporter per il New York Bulletin che debutta nel numero 153 di Daradevil) presta la sua penna e le proprie abilità giornalistiche per smascherare i criminali di New York. Ma fa una brutta fine: le sue indagini gli costano prima il licenziamento da parte del suo editore e poi la pelle.
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